Da un Capo all’Altro verso Genova
Mia amata,
qualcuno mi apre un cassetto e fa cenno di avvicinarmi.
Sostiene di potermi parlare del viaggio facendomi giocare con antichi vestiti che dentro vi sono raccolti. Vuole raccontarmi l’aperto con l’intimo, come se i segreti della luce fossero nel buio e quelli della musica camminassero sul silenzio. Mi dice che imparare non significa conoscere. Per conoscere bisogna collegare, mettere insieme, strofinare qualcosa con qualcosa, provare a dire il mondo con il suono che fanno altri mondi. Metto le mani nei tragitti delle pieghe, apro e chiudo afferrando maniglie e penso ai viaggiatori che spalancano e accorciano gli spazi, li accostano e li allontanano suonandoli come strumenti di cui loro stessi sono le mani e il mantice.
Penso ai prigionieri che si inventano l’infinito a ridosso dei muri e tra le crepe sanno soffiare un vento perfetto per le vele dei loro sogni, perfetto come possono esserlo le asole per i bottoni.
In quella clausura, mia amata, imparo a disegnare mappe anche nello striminzito come se possedessi le chiavi per aprire le crune e incontrare l’altrove. Quelle chiavi sono di chiunque, mia amata, perché in fondo alla vita di ognuno c’è una fatalità di derive e di saluti al finestrino, di arrivi che non sono più illusori degli addii.
Adesso mi sento io piccolo e intimo come un cassetto.
Mi viene voglia di mare, mia amata. Voglia di andare in riva al mare.
Ci torno spesso perché il mare non ha mai la bocca secca e dalle sue labbra umide sa insegnarmi la parola che supera la fine anche quando il sale fa bruciare le ferite.
Il mare non smette mai di dire, mia amata.
Ha sempre un’onda da raccontarti o una schiuma per lambire un’idea cullata sopra il bagnasciuga vicino alle conchiglie o a quel che resta delle pietre quando le ha masticate l’acqua.
Il mare è una proposta di tragitti lungo i quali perdersi fino al punto in cui aria e acqua insieme inventano il quinto elemento: la poesia degli orizzonti.
Io che vengo dalla montagna, mia amata, e sopra le cime ho visto l’indice dei campanili puntare il dito tra le nuvole per indovinare il cielo, vorrei alzare un faro per ogni notte di tempesta, un faro nella nebbia dei viaggi che non terminano mai e aprire una via lattea a tutti i naviganti, un tappeto bardato di stelle per tutti quelli che corrono il rischio di non farcela, per tutti quelli che non ce l’hanno fatta.
Forse il viaggio è ciò che sta in mezzo tra chi non è mai tornato a casa e chi la trova a ogni bivacco, tra gli esodi e il vagabondare.
Qualcuno cercava casa e l’ha trovata dove non voleva. Stipato vicino alla carne degli altri, ancorato in fondo agli abissi o nascosto dove nessuno riesce a vedere. Li hanno chiamati risorse, erano uomini mortali come me.
Qualcun altro ha fatto di ogni sosta un domicilio, dicendo casa tutte le volte in cui i piedi hanno smesso di cantare una strada. Li hanno chiamati zingari e sono amici del vento, domatori di tempo.
In riva al mare, mia amata, tra gli esodi e il vagabondare, penso ai miei viaggi.
Alle vigilie che sono già piene di percorsi e ai ritorni, pensieri di risacca in cui le cose incontrate restano sulla riva delle visioni.
In fondo al viaggio, mia amata, trovo te.
Perché anche un viaggio, alla fine, altro non è che mettere vita nella vita, aprire le porte del mondo, chiedere al mondo di spalancarsi per scovare un viso inenarrabile che sporge in fondo al buio e chiedergli di portare nel nostro giardino un girasole impazzito di luce.
Buon viaggio, mia amata.